Intervista a Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti

Benvenuto su System Failure. Come è nata in te la passione per la musica?

Grazie, bentrovati e grazie per avermi concesso il piacere di raccontarmi. L’amore per la musica nasce dal dolore di una perdita. Mio padre mi regalò una chitarra, due mesi dopo morì di cancro. Impiegai due anni a tirarla fuori dal fodero, avevo ormai compiuto diciotto anni, e feci io a lui il regalo di suonarla. Quasi un obbligo, qualcosa che sentivo andava fatto, e non ho più smesso. Ho cominciato a suonare ad “orecchio”, famelico e curioso di ogni nota che sentivo; ogni melodia e armonia che giungeva alle mie orecchie doveva essere riprodotta grazie a quelle poche corde. Non immaginavo cosa fosse davvero la “musica”, quali fossero le regole, nulla mi importava di più di far suonare quello strumento il più forte possibile. Andavo ovunque con la mia chitarra, sempre senza fodero, e quando pioveva la usavo come ombrello, oggi so che non ne avevo un gran riaspetto ma all’epoca eravamo fratelli e ciò che capitava, capitava a entrambi. Qualche tempo dopo ho scoperto spartiti, parole, canzoni, e che per andare avanti forse avrei dovuto studiare e così feci. Non sono diventato il chitarrista che sognavo, non sono diventato un direttore d’orchestra, ma oggi so scrivere quello che penso e questo è il gioco più bello.

Sei anche scrittore. Hai pubblicato quattro libri di racconti e tre sceneggiature teatrali delle quali hai curato anche la parte musicale. Come riesci a fondere queste diverse forme d’arte?

L’arte è racconto, sotto qualsiasi regola che regga la forma espressiva prescelta, si tratta di essere in grado di usare fantasia e ingegno, esperienza e capacità, studiare la forma, le forme, l’estetica e riuscire a sentire la strada migliore per arrivare a tradurre il pensiero in qualcosa di tangibile, udibile, rappresentabile; comprensibile o meno l’arte è espressione del sé, e il mio me non fa distinzioni di sorta, è sempre e comunque qualcosa legato al mestiere di rappresentare. Sicuramente ogni persona è diversa e ha diverse attitudini, capacità, interessi, a me piace la prosa; la letteratura e la poesia fanno parte di me e la musica è veste perfetta per come io sento la realtà. A volte non basta il tempo breve del testo di una canzone per raccontare l’idea o il sogno che ho voglia di rappresentare, a volte ci vuole un corto teatrale, un racconto, una serie-tv. Non fondo i mondi, li uso a seconda delle mie necessità. Questo non significa però che io ci riesca o sia bravo nel farlo: ci provo e realizzo, invento, “sperimento”. Non sempre tutto riesce, si soffre e si impatta contro muri imbattibili, altissimi, ma non è mai questo il limite, solo un tempo di fermo.

“CARO LUCIO RISPONDO” (Red Phonics Records) è il tuo nuovo disco. Ci puoi parlare della genesi di quest’ultimo? Con che spirito è nato?

Ero giovanissimo quando per la prima volta ascoltai il brano “L’anno che verrà” di Lucio Dalla, giovane al punto di non riuscire a capire quale fosse il senso della scelta di inserire una lettera dentro una canzone. Non suonavo, non sapevo cosa fosse la musica, come raccontato l’ho scoperta tardi. Amici più grandi la cantavano, sembravano comprenderne a pieno il senso, io dentro pensavo solamente a chi avrebbe mai potuto rispondergli. Ecco, questo mi è rimasto dentro, quel senso di incompiutezza verso un amico che scrive e al quale non si risponde. Semplice e piccola frase che resta in testa che da allora è rimasta: “Caro Lucio rispondo”. Solo oggi ho potuto farlo e per via di questo nostro presente, che è stato il suo futuro, il suo desiderio di vivere un mondo diverso che non poteva essere quello che viveva. Oggi gli rispondo, ho immaginato nove canzoni come nove risposte a quella sua lettera e come suo amico soltanto immaginario gli ho voluto descrivere il tempo che vivo, che tutti viviamo. Non può rispondere, di sicuro non lo avrebbe mai fatto, ma io ho sentito lo stesso il forte impeto di riempire quel vuoto rispondendo al dovere di rispondere ad un amico che scrive.

Come prende forma una tua canzone? Che ambiente crei intorno a te stesso?

I miei brani sono il frutto della scelta di raccontare cosa scelgo di rappresentare. Scelgo un argomento e scrivo, lavoro dapprima sul testo, cesello parole, frasi e correggo, elaboro il senso, scolpisco e cancello, cancello e ricomincio, è un lavoro non semplice e mai di getto, arrivo sempre alla forma che voglio e solo allora, quando il testo soddisfa ogni parte dei miei me che mi vivono dentro, parto con l’elaborazione della musica, della veste armonica. Qui il lavoro diventa gioco, senza una forma di stile preciso mi immetto su sentieri diversi, sono le stesse parole a scegliersi il mondo armonico più adatto e così vado avanti. Termino soltanto quando suona perfetto per me ogni singola frase e ogni singolo accordo. Non cerco la strada migliore o quella dello stile in voga al momento, mi piace sperimentare e scrivere per tutti gli strumenti, stavolta ho fatto tutto da solo, inventato, scritto e registrato ogni singolo strumento anche virtuale. Ho registrato anche i video con lo stesso atteggiamento. Ma è stato il momento, la realtà che stiamo vivendo. L’isolamento e le restrizioni imposte dall’incombere della pandemia, le scelte di chi ci amministra e la vita isolata alla quale siamo tutti stati costretti. Il mio approccio comunque è sempre stato questo: decido e poi scrivo, semplice e onesto.

“Il muro nel deserto” è colonna sonora di un corto. Ci puoi presentare questa canzone?

Un corto girato al confine tra il Messico e gli Stati Uniti che narra di migranti, morte e speranze. Sono stato contattato dal regista, ho ricevuto le immagini e su quelle ho costruito la musica. Mi sono lasciato condurre dal senso di uomini e donne in balia degli eventi ma tutti con lo stesso pensiero dentro: scappare da un luogo per raggiungerne un altro con la voglia di vivere meglio. Scrissi la musica ma non ricordo bene a chi la feci realizzare, è passato molto tempo, so solo che il risultato fu molto gradito e ho ricevuto altri lavori dallo stesso regista. Quello che vale per me e che resta è riuscire ad esprimere al meglio ciò che il regista si aspetta, cercando di metterci dentro quello che sento, non so se ci sono davvero riuscito ma ho consegnato la mia visione in musica di quel girato e l’ho realizzata cercandomi dentro quel senso di fragile instabile vita che in fondo, prima o poi, tutti si sente.

Per concludere saluta i nostri lettori e parlaci dei tuoi progetti futuri….

I miei progetti sono semplici, basilari: vorrei poter ritornare a suonare, esibirmi in teatri piccoli, riuscire a tradurre il mio tempo e farmi capire, renderlo nostro e cantare nel tentativo di esorcizzarlo, di renderlo anche per poco, libero da tutte le nostre paure.