Intervista a Paolo Ronchetti
È uscito il tuo album, “Cose Da Fare”. Di cosa parlano le canzoni?
Le canzoni dell’album parlano del tempo, delle cose che succedono (volente o nolente), “delle occasioni lasciate ad aspettare” come dicevano De Andre e Brassens, delle cose da fare che sono sempre più della nostra vita e della nostra possibilità. Di questo è fatto il disco: di un arrendersi e/o di un lottare contro e sul tempo. Il tutto cercando di non piangermi addosso ma con una determinazione che ritengo necessaria.
Con che spirito è nato questo album? Quale è il filo rosso che unisce le canzoni?
Arrivato a 62 anni volevo fare qualcosa di profondamente mio e personale dopo aver suonato per quarantacinque anni ogni genere possibile. Il filo rosso sta tra la mia vita e il mio suonare.
Hai collaborato con tanti per questo album…Come vi siete conosciuti? Cosa puoi dirci di ognuno di loro?
Il disco è stato suonato, preparato e registrato con persone con cui suono da più di metà della mia e/o della loro vita. Con Gianmario Cirocco, bassista, suoniamo dal 1979 circa e con Roberto Rossi (chitarra elettrica) dal 1985. Insieme a loro tanto rock nei primi anni e poi una militanza trentennale nei No Project: un Quartetto Jazz Drumless che ci ha fatto da palestra. Gabriele Paludetto (chit e cori), Francesco Paludetto (basso), Pietro Girgenti (batteria), Luigi Napolitano (sax), Laura Ceriotti, Giulia Melgrati e Sara Rapino (voci) sono invece miei “nipoti”. Suono con loro dai loro 13 o 16 anni. Ad inizio anni 2000 abbiamo iniziato a suonare assieme negli Uncle’s Nephews e per anni abbiamo suonato Rock, Soul, Punk, RnB in infinite feste e concerti crescendo sempre più sino ad arrivare ad essere in questo disco. Poi ci sono i due brani in cui suonano due coppie di musicisti scelti tra amici con cui avevo condiviso il palco come il sassofonista Ausonio Calò e il suo amico contrabbassista Marco Piccirillo (in Donna); oppure due musicisti felicemente suggeriti dal produttore Michele Anelli come nella conclusiva Adoro Le Canzoni di Natale (Roberto Musso al basso e Davide Merlino al vibrafono)
Come è stato collaborare con Michele Anelli? Come è stato collaborare, invece, con chi si è occupato di mix e master?
Con Michele ci conosciamo da una ventina d’anni e l’amicizia è cresciuta con il tempo. È stato naturale chiedergli di produrre il disco e quando Michele ha ascoltato i brani la prima volta è stato bellissimo leggere nelle sue parole che vedeva in quelle canzoni una “luce” ancora più intensa di quella che io vedevo. Senza Michele questo disco non ci sarebbe stato oppure sarebbe stato un lavoro molto meno compiuto, interessante e bello. A lui devo tutto. La sua esperienza è stata fondamentale ed indispensabile. Anche i contatti con Taketo Gohara (al mixer) e Giovanni Versari (Mastering), due numeri uno in Italia e professionisti che lavorano solo su progetti di grande qualità, sono venuti tramite Michele e il loro lavoro ha lanciato in alto la qualità sonora del disco.
Progetto grafico di Annalisa Castelli per la copertina dell’album. Cosa rappresenta?
Anche con Annalisa abbiamo fatto un lungo lavoro con un grande scambio di idee su cui lei ha messo una professionalità e una capacità di focalizzare il tutto in un progetto grafico perfetto per il disco. Nella foto osservo gli spettatori di un teatro mentre guardano il palco in un isolamento quasi Hopperiano. Le linee in calcestruzzo della struttura sono esasperate e diventano lo schema grafico all’interno del quale, nel booklet del disco, si inseriscono note, testi e fotografie. Un lavoro, mi pare, di grande raffinatezza.
In un mondo sempre più in crisi, per tanti aspetti, quale è il ruolo della musica?
La musica per me deve essere uno spazio di riflessione. Uno spazio in cui la banalità non possa essere l’unico ingrediente. Uno spazio in cui fermarsi. Le note e le parole devono aver la possibilità di avere un senso anche quando sembrano non averne.
“Wop bop a loo bop a lop bom bom;
Tutti frutti, oh rootie
Tutti frutti, oh rootie…
…A wop bop a loo bop a lop ba ba”
È l’inizio di Tutti Frutti di Little Richard. Una specie di nonsense dadaista che però rivoluzionò il RnR e la sua possibilità di comunicare. Senza questo brano non ci sarebbe stato Dylan o i Beatles e poi tutto ciò che sono stati questi 70 anni di musica mondiale. La musica e le parole non hanno valore solo in quanto “usate” ma in quanto acquistano un senso nel loro saperle porgere.
Quale è la differenza tra suonare per sé stessi e suonare per una band?
Sogno e lavoro con le band affinché si suoni come si fosse una persona sola. Adoro le dinamiche e i pienissimi e i vuoti inaspettati. Da solo o con la band. Vorrei far deragliare improvvisamente le canzoni con noise cinici come con silenzi che aprano all’abisso. Da solo o in dieci sul paco. Certo in dieci sul palco è meno facile ma a questo lavoriamo!
Un momento importante della tua carriera…
La mia vita “artistica” è stata un divenire continuo di scoperte e assestamenti da quando avevo 15 anni, perciò, non ne vedo se non in quella volta che dopo un lungo ricovero e con mille difficoltà e paure salii di nuovo a cantare su un palco. Ecco: sicuramente quello fu un punto di svolta importante (e da allora è sempre una vittoria salire sul palco per suonare).
Quanto è importante sperimentare con la musica?
È fondamentale. Sperimentare e scegliere cosa tenere.
Un live di cui conservi un ricordo indelebile?
Troppi e di troppi generi. Dal 79 ad oggi i primi che mi vengono in mente (oggi) sono Devo, Miles Davis, Zappa, Tom Waits, Basinsky, John Zorn, David Byrne (con o senza Talking Heads), Meredith Monk. Ma sono troppi i live che ho visto in vita mia!
Per finire, cosa hai in progetto per il futuro?
Vivere! Stare bene e fare stare bene. E poi promuovere il disco e suonare. Recuperare quella dimestichezza con il palco che è stata minata dagli inconvenienti della vita. Tutte cose per cui lottare è bellissimo.
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