Intervista a Michele Anelli
Ci parli dei tratti salienti del tuo percorso artistico?
Aver creato e suonato per vent’anni con Thee Stolen Cars e The Groovers sicuramente ha posto le basi per tutto ciò che sono oggi. Avevo 23 anni quando ho iniziato a suonare il basso, non ero giovanissimo. Era l’aprile del 1987 e nemmeno due mesi dopo, in trio, esordii dal vivo con gli Stolen Cars. Erano anni in cui potevi permetterti di avere ancora una modalità punk per salire su un palco, un misto di sfrontatezza e coraggio. Nel 1989 iniziai l’avventura coi Groovers, come cantante, chitarrista e autore delle canzoni. Con loro ho pubblicato sette album in inglese. Proponevo brani originali, a partire da una miscela di rock americano che prendeva spunto da Petty/Young/Springsteen/CCR, per finire, con gli ultimi due album, su coordinate musicali in stile Wilco/EELS. Negli anni precedenti alle due band, ho trasmesso musica in un paio di radio locali sul Lago Maggiore e pubblicato una fanzine dal nome Fandango (in omaggio al film e ai loro protagonisti, chiamati appunto Groovers). Nel 2009 decisi che era venuto il momento di cambiare. Concludemmo l’esperienza Groovers al Mei di Faenza, nella giornata in cui ci consegnarono la targa per i vent’anni di carriera. Volevo iniziare un nuovo percorso artistico in italiano. Per farlo ho iniziato ad approcciarmi alla canzone popolare dei canti del lavoro e della Resistenza italiana, pubblicando un paio di dischi e proponendo, per qualche anno, degli spettacoli a tema. Successivamente, prima di arrivare a “Sotto il cielo di Memphis” ho pubblicato il primo album omonimo nel 2013, in compagnia della band pavese dei Chemako, nel 2016 “Giorni usati” e, nel 2018, “Divertente importante”. Gli ultimi due pubblicati da Adesiva Discografica di Paolo Iafelice. Li considero una trilogia che mi ha permesso di migliorarmi fino ad arrivare all’album appena pubblicato.
Come è nata in te la passione per la musica?
Dai 45 giri che giravano per casa e dai primi album che comprava mio fratello maggiore Mirco. Sul finire degli anni settanta certe trasmissioni radiofoniche, come Alto Gradimento, o televisive, come L’altra domenica, e, un paio di anni dopo, Mr Fantasy, aprirono le porte a nuovi suoni e immagini. Se tra i 14 e i 16 anni il mio mondo musicale era confinato tra Bennato, Finardi, Bertoli e AcDc, Deep Purple, quelle trasmissioni ebbero il pregio di farmi sconfinare, guardare e ascoltare oltre a quello che avevo a portata di mano. Considera che abitavo in un piccolo paese sulle rive del Lago Maggiore e bastava poco perché qualcosa generasse stupore e cambiamento. Così, quando un amico prima mi prestò e poi mi vendette le copie di London Calling dei Clash e The River di Springsteen, si aprì un ulteriore spiraglio di luce nel quale mi gettai a capofitto. Nel frattempo presi il primo album dei Cure e “October” degli U2. Con quella manciata di album cominciò una storia che continua tuttora e quei dischi sono ancora con me.
Come nasce una tua canzone? Parla del processo creativo alla base…
Una canzone nasce da un’idea. Non ho una regola precisa, se prima debba arrivare il testo o la musica. Quando penso a quale tipo di lavoro vorrei pubblicare, comincio a farmi un’idea musicale in base agli appunti di frasi con cui riempio interi quaderni. Negli anni ho affinato le parole e nell’ultimo album ho cercato volutamente una certa identità musicale. Prediligo il silenzio mattutino, amo svegliarmi anche molto presto. In quel silenzio, a mente sgombra, riesco a calarmi nel mio mondo e a creare. Generalmente quando sono sotto pressione riesco a dare il meglio. Mi è capitato anche con l’ultimo album. Mancavano cinque giorni all’inizio delle registrazioni e i musicisti avevano già in mano tutti i demo. Non ero soddisfatto del brano “Tutto quello che ho”, poi modificato in “Quello che ho” perché esiste già un brano col medesimo titolo depositato da Drupi, con cui condivido il cognome. Così presi in mano la chitarra, scombinai le parole e nell’arco di due minuti era nata una nuova melodia. Non capita spesso ma quando succede è bellissimo.
“Sotto il cielo di Memphis” è un album sbalorditivo. Ci racconti qualcosa di questo album? Ci parli della sua genesi?
Innanzitutto grazie. Ricevere complimenti, inutile nasconderlo, è sempre bellissimo. Dopo “Divertente importante” sentivo di aver chiuso un ciclo. Nella primavera del 2019, a poco meno di un anno dall’uscita dell’ultimo album, ho ricominciato a comporre, trovandomi, in breve tempo, ad avere circa venti nuovi brani. Stavo esplorando nuove forme di scrittura ma cercavo qualcosa in più di quello che avevo composto. Pianificando gli spostamenti all’interno di un significativo viaggio con Federica negli States, nei vari appartamenti dislocati in differenti città, delineammo una sorta di viaggio musicale che comprendeva New York, Asbury Park NJ, Nashville, Memphis, Clarksdale, Tupelo e Muscle Shoals. Tenuto conto che avremmo terminato il viaggio nella cittadina dell’Alabama dove, negli anni sessanta, Rick Hall creò i FAME recording studios, mi venne spontaneo immaginare se fosse stato possibile registrare lì qualcosa di nuovo. Presi contatto con i FAME e mi rispose John Gifford III, il tecnico del suono che ha proseguito il lavoro di Rick Hall. Fissammo così la giornata in studio con un paio di musicisti in loco. Durante il nostro viaggio, ho assorbito tutto quello che potevo della magia musicale con cui ero cresciuto e che ora, finalmente, potevo “attraversare” e “sentire”. In passato, nel 1994, terminai l’album “Soul street” dei Groovers ad Austin, in Texas, ma passai quasi tutto il tempo in studio con poche divagazioni. Non vorrei dilungarmi troppo, perché sintetizzare un’emozione non è mai semplice, ma sono certo che Memphis è stata una tappa fondamentale. Potrei raccontarti per ore del Sun Studio, o dello Stax Museum, del Civil Rights Museum o, inaspettatamente ne è valsa la pena, di Graceland. Avevo l’anima caricata a mille quando giunsi a Muscle Shoals per registrare “Ballata arida” ed “Escluso il cielo” (i brani pubblicati con il 45 giri). John mi fece incontrare Bob Wray (bassista dall’esperienza pazzesca) e il batterista Justin Holder (ricercato session man del FAME). Con naturalezza, professionalità e tante risate non ci mettemmo molto ad arrangiare e a registrare le due canzoni che avevo inviato loro in versione demo prima del viaggio. Con John e soprattutto Bob, tramite messaggi, ci sentiamo ancora. Bob ha una carriera straordinaria ma mi ha sempre considerato alla pari, con grande rispetto. Al rientro dal viaggio con le due canzoni registrate a Muscle Shoals e nella mente ancora tutto quello che avevo respirato, ho iniziato a scrivere le canzoni dell’album. In poco meno di due anni, una trentina di canzoni: alcune sono state pubblicate su un cd allegato a un libro di Agostino Roncallo, altre fanno parte dei cinque demo pubblicati nel cd “Sotto il cielo di Memphis e altre storie”, due compongono il 45 giri e le restanti, più recenti, sono nell’album “Sotto il cielo di Memphis”.
Quale canzone preferisci di questo album?
Difficile rispondere a questa domanda. Penso che “Ballata arida” e “Appunti” siano quelle che possano rappresentare maggiormente ciò che sento in questo disco.
Passione per la musica soul, folk e rock. Come hai elaborato il tuo sound?
Ho dei gusti musicali precisi, ma anche tanta curiosità nell’ascolto. Non mi piace tutto, e nemmeno ascolto di tutto. Per questo album penso di essere stato influenzato dai dischi di Michael Kiwanuka e da band come Black Pumas, Durand Jones & The Indications e i sempre presenti Wilco. La miscela finale che caratterizza “Sotto il cielo di Memphis” nasce un po’ da questa combinazione.
Dove trovi ispirazione per i testi?
Come canto in Appunti “leggo tre libri alla volta”. Leggo molto, non solo libri, tenendomi aggiornato quotidianamente su quanto accade. Inoltre, da sempre, ho uno spirito di osservazione particolare sul mondo del lavoro e della vita sociale. E prendo appunti quasi quotidianamente.
Come è collaborare con DELTA Records & Promotion?
Ho conosciuto in anni recenti Fabio e quando ho saputo che aveva creato una piccola etichetta indipendente mi ero prefissato di incontrarlo. Prima della pubblicazione di “Sotto il cielo di Memphis”, ho avuto qualche incontro di persona o via telefono con etichette e management differenti, tra cui anche Fabio. Alla fine ha prevalso la sua proposta perché prefigurava una certa libertà nella gestione del nuovo lavoro, cosa che era completamente mancata negli ultimi due album. Avevo sofferto parecchio tra incomprensioni e decisioni che alla fine, nonostante i miei avvertimenti, erano risultate sbagliate. In fondo pubblico dischi dalla fine degli anni ottanta e una certa esperienza penso di averla acquisita. Con la DELTA lo spazio di azione è ottimale e anche il rapporto è del tutto collaborativo. Questo porta a gestire con serenità i vari impegni. Non ho idea di come andrà in futuro, ma sono uno che vive il presente e al momento direi che va tutto bene.
Quale è la differenza tra suonare per se stessi e suonare per una band secondo te?
Quando lavoro con una band o musicisti più o meno fissi, tendo a pensare alle canzoni che meglio si potrebbero adattare al loro modo di suonare. Negli anni, questo l’ho trovato limitante. Oggi preferisco, quando è possibile, creare autonomamente e poi cercare opportunità differenti, perché credo che ognuno abbia una ricchezza musicale che può far emergere al meglio l’idea che ho sentito nascere dentro di me. Quando arrangio le canzoni con gli altri, espongo delle linee guida cercando di far emergere le potenzialità espressive di ogni singolo musicista. A volte mi piace stimolarli a osare, a uscire dalla propria comfort zone, e i risultati arrivano.
Chi sono i tuoi miti musicali?
Penso che i Clash di “London calling”, lo Springsteen di “Darkness on the edge of town” e Nebraska, i Wilco di “Yankee Hotel Foxtrot”, il Tom Petty di “Damn the torpedoes” e 2Wildflowers2, gli EELS di “Daises of Galaxy”, i dischi di Otis Redding o un brano come “Papa was a rolling stone” dei Temptations abbiano tutti, in qualche modo, alimentato la mia passione musicale. Adoro ogni album degli Hoodoo Gurus, così come mi piacciono i dischi dei Mott The Hopple e di Ian Hunter, i Beatles e i Rolling Stones. Un elenco infinito, dentro cui trovare i Fleshtones e uno come Kiwanuka, non lo trovo così strano. Come ascolti italiani i miei riferimenti sono i primi dischi di Finardi, Camerini e Bennato. Tutto Rino Gaetano e una parte di Bertoli. Il Battiato di Patriots o L’era del cinghiale bianco. Ho migliaia di dischi e rischierei di non fermarmi qui!
Se la tua musica fosse un libro, un quadro o un film?
Un libro “Da A a X” di John Berger, un quadro “Guernica” di Picasso e un film direi “Fandango”.
Oltre la musica che arti preferisci?
Film, fumetti, anche se meno di un tempo, e libri, tanti libri. E poi adoro la montagna, i suoi silenzi e i suoi sentieri. Non è un’arte in senso stretto ma è “arte della natura”.
Ho letto che: Nel 2020, insieme al giornalista e scrittore Gianni Lucini, pubblica Ho sparato al domani per Segni e Parole editore. Il libro contiene sette racconti “musicali” in cui passato, presente e futuro si scambiano spesso d’abito andando in scena in epoche differenti e con personaggi tutti da scoprire. Ci parli un po’ di questo progetto? Come è stato collaborare con Gianni Lucini?
È il mio quarto libro e il secondo, di narrativa, per Segni e Parole. Precedentemente mi ero occupato di canti e storie della resistenza italiana. Con Gianni, c’è una profonda amicizia ventennale e lo scorso anno, durante il primo lockdown, abitando in paesi differenti, mentre parlavamo di alcune cose è scattata la scintilla su un progetto comune. Stimolandoci a distanza, abbiamo scritto dei racconti in cui la parte musicale è la costante che unisce la diversità dei contenuti. Ci ha sorpreso l’ottima recensione pubblicata da una rivista musicale come Rumore. Inaspettata. I racconti spaziano tra situazioni adolescenziali e futuristiche, dalla morte di Hendrix ai concerti del Parco Lambro degli anni settanta. In tutti, la musica è come una colonna sonora, costante, inevitabile, infinita.
In un mondo in crisi economica, climatica e sanitaria secondo te quale è il ruolo della musica?
La musica è sempre stata la storia dei popoli. Più di quanto si possa trovare nei libri di storia. Non è raro che vicende importanti della storia dell’uomo siano ricordate anche attraverso le canzoni e per le canzoni che, in quel momento, erano la colonna sonora delle persone. Non ho risposte o soluzioni, sono più portato a stimolare il pensiero con le domande. Spesso mi chiedo perché, chi è diventato musicalmente famoso, con possibilità economiche non comuni, non si adoperi maggiormente per stimolare le persone, soprattutto giovani, a invertire la rotta, a capire e comprendere il momento drammatico della terra. Ognuno nel proprio piccolo deve fare qualcosa per preservare quanto di buono abbiamo intorno. Il mondo del lavoro, fin dal primo album dei Groovers, è sempre stato al centro di molte mie canzoni. Assorbo le difficoltà, i pensieri, le storie e le vicende delle persone. Spesso mi trovo ad ascoltare i racconti di persone semplici protagoniste in un modo del lavoro pieno di difficoltà. Il benessere di pochi è spesso causa del disagio di molti. Sembrerebbe che non esista un’inversione di rotta. La musica deve stimolare, far muovere il corpo e, allo stesso tempo, permetterti di pensare. Una delle band migliori in questo senso sono stati i Creedence Claerwater Revival di John Fogerty, ma anche i Clash, se penso a brani come “The Magnificent Seven”, “Know your rights” o “White man in Hammersmith palais”.
Per finire, saluta i nostri lettori e dai qualche consiglio alle band o agli artisti che stanno muovendo i primi passi nel mondo della musica….
Credo fermamente che ogni artista, pur attingendo dalla musica che predilige, alla fine debba essere sé stesso. Sempre. Meglio fallire proponendo la propria unicità che avere un briciolo di attenzione esibendosi come copia di questo o quello. Ognuno inevitabilmente prende da chi l’ha preceduto, l’importante è far diventare qualcosa di personale la propria attitudine creativa…A tutti voi lettori di System-failure auguro…buona musica!