Intervista a Karrambah

Benvenuto su system failure. Ci parli del tuo percorso musicale fino ad adesso?

Grazie mille! Il mio percorso è un po’ atipico, per tanti anni ho suonato come trombettista in un corpo bandistico, ma con emozioni contrastanti. Oggi ritorno alla musica suonata con diversa consapevolezza dopo tanta musica ascoltata e piccole scoperte quotidiane. Per fare un esempio, lavoro come filmmaker e l’attenzione che ho sempre dato al suono nelle mie opere mi ha suggerito la possibilità di intraprendere una nuova strada. La sto percorrendo molto liberamente con il solo scopo di fare una esperienza gratificante e restituire a chi ha voglia di ascoltarmi le stesse emozioni.

Come ti sei appassionato alla musica elettronica?

Appassionandomi di musica in generale e rimanendo sempre con la mente aperta. L’elettronica è arrivata dopo ascolti molti variegati lungo tutti i miei 29 anni. Per riassumere, ho amato tanto il progressive rock da adolescente e poi sono finito a divorare tutto il post rock di inizio anni ‘2000. Crescendo, a un certo punto mi sono ritrovato in territori sempre più contaminati. Però credo che esista solo la musica bella e quella brutta e la differenza non la fanno gli strumenti coinvolti, quanto piuttosto l’intenzione che un artista ci mette.

La tua musica è tanto sperimentale. Come hai elaborato il tuo sound?

Sembra scontato ma sperimentando. Sono in una fase di vita nuova e ho scelto inizialmente di giocare con il suono lasciando le emozioni libere di esprimersi. Già nel 2017, parte del sonoro di un mio documentario (che si chiama “Il Limite”, del 2017) era realizzato tagliuzzando e giocando con dei loop dell’audio ambiente del film stesso. Mi sono reso conto che quando giochi con il suono sveli parte del grande mistero che c’è nelle cose: se rallenti a dismisura il suono di una goccia d’acqua sentirai un fiume in una grotta gigantesca. C’è così tanta relazione tra il grande e il piccolo che aprire gli occhi è inevitabile. Ho applicato quella lezione di vita senza il fine ultimo del film, ma solo per il puro gusto della scoperta.
Dopo un anno di esperimenti ho capito che ero pronto a dare una forma più compiuta al tutto. E la ricerca continua tuttora…

Quali sono i tuoi ascolti preferiti? Nomina 3 album che hanno segnato la tua vita…

I miei ascolti preferiti sono ciò che mi colpisce al di della ragione, in maniera epidermica. Scegliendo solo tre album ti direi “Kid A” dei Radiohead, “Lanterns” e in generale la discografia dei Son Lux, che sono tra le band che più ho amato recentemente e per chiudere con un ascolto italiano “DIE” di Iosonouncane che mi è stato propulsore per dare forma a tante cose che immaginavo solamente.

Come nasce una tua canzone? Che ambiente crei intorno a te stesso?

Ogni brano è nato in modo diverso, se devo cercare delle linee generali passo sempre una fase di input che può essere una giornata di sperimentazione su uno strumento nuovo oppure un ritmo che mi convince. Dopo quella “miccia” per un certo periodo mi rimangono in testa delle idee che come delle onde devono fare avanti e indietro sul bagnasciuga. Passato un certo periodo rimangono dei sedimenti che sono poi l’ossatura del brano. A quel punto è solo questione di mettere a frutto le cose e affinarle pian piano.

Abbiamo recensito “Memorie notturne di sogni diurni”. Ci parli della genesi di questo album? Dove è stato registrato?

Ho lavorato tantissimo materiale per un anno intero prima di accorgermi che potevo creare dei brani e un album compiuto. È stato registrato nel tempo ma finalizzato di notte e parla, anche se in forma grezza e molto soggettiva, della stretta relazione che c’è tra il sonno e la veglia. Mentre componevo il disco stavo leggendo un libro meraviglioso di Jodorowsky, “Psicomagia”. In un passaggio esprime molto bene la relazione che c’è tra i sogni e la vita di tutti i giorni. Suggerisce di vivere i sogni lucidamente e di vivere come in un sogno ed è da questo spunto che nasce anche il titolo dell’album. Dovremmo essere più consapevoli di quello che ci suggeriamo di notte (mentre rimuginiamo sulla giornata e/o sogniamo) in modo da vivere la vita con più innocenza, creando atti creativi onirici durante il quotidiano.

Quale traccia preferisci di questo album?

“Beat in G” è la prima in assoluto che ho fatto e inizialmente durava 15 minuti. È stata fatta quasi interamente con il primo synth che ho utilizzato che si chiama Lumanoise: è un generatore di noise fotosensibile, cioè il pitch varia in base alla luce che colpisce delle fotoresistenze. L’ho usato moltissimo nell’album e mi ha dato grandi soddisfazioni anche se ovviamente l’interazione con la luce è qualcosa che può essere solo immaginato dall’ascoltatore. Sono rimasto affezionato alla traccia perché per parecchio tempo è stata solo un esperimento. Poi un bel giorno ho deciso di stravolgere e accorciare il brano includendo un frammento registrato mesi prima di una folle improvvisazione al pianoforte con la mia ragazza. La svolta improvvisa del brano me ne ha fatto innamorare. Poi anche “Mantra” che è un pezzo che mi è riuscito particolarmente e che a posteriori mi ricorda i Mogwai.

Cosa rappresenta l’artwork dell’album?

L’artwork(in figura subito sotto)é un disegno che ho realizzato tempo addietro e l’ho trovato adatto perché è sia astratto sia molto concreto, ha una matericità: ci puoi vedere rocce, fiumi, piante, animali. Ma non c’è nulla davvero di tutto questo. È misterioso ed è introverso.

Autoproduzione per necessità o per scelta?

Per urgenza, non ho pensato a tavolino di avviare una carriera musicale e non ho pensato a tavolino di fare un disco. È stata una urgenza creativa e personale, ho sentito la necessità di esprimere un mondo interiore in musica e ora sono grato di averlo fatto. Se trovo una etichetta sarà la conseguenza di un percorso avviato e se la musica che realizzo va a impattare delle esigenze tra gli ascoltatori.

Oltre a creare musica elettronica lavori professionalmente come filmmaker e fotografo. Come riesci a bilanciare la tua carriera artistica e la tua vita professionale?

Mi viene abbastanza naturale. Anche nella mia vita professionale in realtà ho sempre cercato di portare avanti un discorso artistico, o per lo meno ho sempre cercato lavori che fossero in linea con i desideri di quel determinato momento. Ho scelto la vita da freelance perché ho l’impressione di potermi costruire una identità professionale giorno dopo giorno. Quello che è un po’ cambiato è che dal lato più da “filmmaker” ho sempre avuto un po’ più la smania di fare qualcosa o diventare qualcuno, mentre come “musicista” mi sento più libero e mi sono messo meno pressione addosso. Questo approccio è più sano e più soddisfacente e può regalare tanto nella vita di tutti i giorni che è quello che tutti ben o male cerchiamo.

Oltre alle arti finora citate quali altre preferisci?

Mi reputo piuttosto ignorante, anche negli ambiti che conosco maggiormente. Però, riprendo in mano Jodorowsky per la seconda volta: ha scritto che l’unica forma d’arte è quella che guarisce. Sono d’accordo, apprezzo le opere umane che hanno prospettive alternative, e che possono provocare un risveglio spirituale negli altri, anche laddove non sono tradizionalmente riconosciuti come artisti. In ordine di tempo, di recente sono stato al Castello Incantato di Sciacca, sono sculture nella roccia di un artista molto eccentrico, consigliato.

Ho letto queste parole. “Da fine 2019 il suono prende ancora più spazio nella sua vita, dopo una svolta spirituale che lo porta a diventare operatore olistico sonoro-vibrazionale”. Puoi commentarle? Puoi raccontarci di questa svolta spirituale?

È qualcosa che è sempre stato latente in me. Ho gli occhi ancora da bambino, quello sguardo curioso sul mondo e che vuole sperimentare cose nuove. Molto rapidamente, negli ultimi anni, per degli incontri fortuiti, ho scoperto che passiamo tanto tempo a giudicare. È una cosa perfettamente naturale, d’altro canto le prime vittime del giudizio siamo noi stessi. Dividere il mondo costruisce in noi delle gabbie e la gabbia più grande è l’identità che spesso coincide con il nostro lavoro. Quando ho iniziato a darmi il permesso di poter credere in cose che ritenevo (a causa degli auto-giudizi) impossibili, si è spalancato un mondo di possibilità. Una delle possibilità che si è aperta è quella di poter trovare un modo per poter effettivamente fare cose che sognavo di fare per aiutare altre persone a lasciare andare dei giudizi su loro stesse. Così la cosa più naturale è stata quella di coniugare la musica con il benessere. Tutti coloro che amano la musica (e chi non la ama?) sanno quanto le note giuste o la canzone giusta possono cambiare il modo in cui vediamo una giornata. Al momento mi sto diplomando per lavorare anche come operatore olistico sonoro-vibrazionale. In poche parole un facilitatore del benessere attraverso tecniche spirituali e strumenti musicali, soprattutto le campane tibetane.

Quanto ti manca la dimensione live a causa del coronavirus? Come stai vivendo l’emergenza sanitaria?

Sono totalmente emergente e questo blocco forzato mi ha dato il tempo di preparare al meglio i live che saranno. L’emergenza fino a che verrà percepita come tale sarà una tragedia, ma non è l’unico modo di vederla: potremmo migliorare il rapporto che abbiamo con la morte perché fa parte del ciclo delle cose.

In questo mondo in crisi climatica, economica e sanitaria quale è il ruolo della musica secondo te?

Quello che ha sempre avuto fin dalla notte dei tempi, la musica è un grandissimo modo per esprimere se stessi, come tutte le forme umane. Credo che quando è fatta coscientemente funzioni molto bene.

Se la tua musica fosse una città a quale assomiglierebbe? E se fosse un libro, un film o un quadro?

Come città, nel disco c’è tanto di Milano, dove vivo, ma ho un rapporto speciale con la Sicilia, direi che c’è anche Palermo o Mazara del Vallo. Riguardo al libro…sicuramente dalla mia musica esce tutta l’influenza che ha avuto su di me Philip Dick, sul quadro non mi sbilancio, non ne ho idea.

Per finire saluta i nostri lettori ed invogliali ad ascoltare la tua musica…

Grazie mille di questa intervista e a tutti i lettori di System Failure. La musica è bella e va ascoltata tutta, la mia vorrebbe toccare tanti aspetti reconditi e nascosti di chi l’ascolta. Se siete persone che che amano esplorare le luci tanto quanto sono affascinati dalle ombre questo album fa per voi.

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