Intervista a Feel Spector

Benvenuti su system failure. Ci potete presentare in poche righe il vostro progetto musicale? Come vi siete conosciuti?

Ciao. Essenzialmente Feel Spector è nato da un momento di “stanca musicale”, ovvero un periodo in cui non avevo progetti musicali in corso. Avevo alcune bozze di brani residui dal progetto precedente e qualche registrazione di jam che avevamo fatto io e Gab nei suoi brevi soggiorni in Italia; decisi di iniziare a fare qualche incisione da solo un po’ come estensione della memoria e un po’ per non buttare via niente. Poi, dal momento che hanno a cominciato a prendere forma abbiamo deciso di completare il tutto, ma avendo la difficoltà delle distanze geografiche tra i vari musicisti lo abbiamo fatto, non con una formazione di band “classica”, ma includendo altri amici musicisti apuani a una partecipazione d’insieme, una sorta di Desert Session apuana se così vogliamo definirla. Possiamo presentare l’album e il progetto stesso come “sforzo artistico collettivo”.

Come nasce una vostra canzone? Parlate del processo creativo alla base…

Più che di processo creativo ci piace parlare di “approccio creativo”, che sta anche alla base della Secessione Apuana. Capita molto spesso a chi scrive un brano di voler calcolare il giusto riff, il ritornello catchy, l’arrangiamento inusuale o il virtuosismo da mettere in mostra, molto spesso il motivo è fare presa sull’ascoltatore. Abbiamo deciso di prendere totalmente le distanze da tutto questo e lasciarci guidare dal momento. Visto che non avevamo l’obbligo morale di sfornare un prodotto a tutti i costi, è stato un flusso di coscienza, anche a rischio di sembrare essenziali o ridondanti. Tanti brani sono il risultato di jam da una singola nota, abbiamo cannibalizzato singoli accordi ripetuti all’infinito, non è stata un’esperienza di composizione a tavolino, abbiamo agito d’istinto per poi dare una “forma” da poter mettere su disco. Siamo forti di una tradizione psichedelica e krautrock nella nostra zona che ci libera dalla forma convenzionale all’approccio alla scrittura. Altri artisti apuani, come Gasparotti, Timer Shine e quel che resta della scena precedente hanno come noi nel DNA l’amore per la free-form.

Chi sono i vostri miti musicali? Nominate anche 3 album che hanno segnato la vostra vita…

Questa è la domanda più difficile. Sia io che gli altri membri siamo divoratori di dischi e di generi vari. Volendo unificare le risposte, il seme dell’ispirazione strumentale parte dalla psichedelia underground inglese, Twink, The Deviants, Hawkwind, Spacemen3,i primi Soft Machine; o altri ancora, Stooges, Brian Eno, Velvet Underground, Glenn Branca. Gab, ad esempio, è appassionato di muzak e colonne sonore, Casu è immerso nel garage rock anni 60 e affini; ripeto, è una domanda difficilissima, ma 3 riesco a tirarli fuori:
Twink – Think Pink
The Stooges – The Stooges
Spiritualized – Ladies And Gentlemen We Are Floating In The Space

Da dove nasce il nome della vostra band?

Phil Spector è stato un personaggio molto presente nei nostri ascolti, una sorta di punto coronato. Riassume in un certo senso l’etica della nascita del nostro gruppo; usando una metafora cinematografica, è stato l’equivalente musicale dei primi registi della “New Hollywood” che non si limitavano solo a dirigere la pellicola per uno degli studios, ma si scrivevano le sceneggiature, selezionavano il cast e avevano un approccio personale all’inquadratura. Spector è stato il primo a prendersi in carico tutti i processi, dalla scrittura dei brani, esecuzione, musicisti, arrangiamento, registrazione e mixaggio; senza contare che i suoi lavori erano strepitosi, riposi in pace. Un po’ quello che, alla fine dei conti, è la storia del nostro progetto. Oltre a questo il nome è un omaggio dovuto alla sua opera.

Il vostro sound è abbastanza eclettico e psichedelico. Come lo avete elaborato?

Le timbriche sono sempre state un’ossessione per noi, talvolta più importanti dell’esecuzione stessa. In particolare quelle più asciutte e acide. Sia io che Gab abbiamo sempre subito il fascino del “sound marcio”; la pulizia sonora e il sound cristallino lo lasciamo alle scuole di musica e ai “riccardoni”. In realtà non c’è una vera e propria elaborazione, c’è sempre stato tra tutti una sorta di accordo non scritto del suonare quello che vorresti ascoltare in un disco. In fase di mixaggio non abbiamo toccato praticamente nulla, quello che si sente è effettivamente il suono del Basement di Maurizio Dazzi, niente di più, niente di meno: solo valvole saturate, solamente l’amplificatore che urla di dolore. E’ stato un approccio molto artigianale, ho avuto acufeni per tutta l’estate. In fin dei conti è il risultato dei nostri ascolti.

Che strumentazione usate per l’elettronica?

In realtà l’elettronica è stata una minima parte. Gab si è limitato all’utilizzo del PocketOperator in un brano, mentre Gasparotti ha messo i suoi synth come ospite in altri. Quel che per il resto può sembrare elettronica sono in realtà utilizzi di vari pedali effetto, tutto rigorosamente analogico. Tutti quanti siamo degli utenti abbastanza smaliziati dei nostri giocattoli e Maurizio Dazzi ha dato accesso a tutta la sua bottega delle meraviglie: è riuscito negli anni ad accumulare strumentazione degna del più feticista dei collezionisti.

Riuscite a bilanciare la vostra carriera musicale e la vostra vita?

“Carriera” è un termine che purtroppo nessuno che abbia partecipato a Feel Spector conosce. Quello che riusciamo a bilanciare con la nostra vita è più che altro una “ossessione”, il pensiero fisso della musica. Credo che per poche persone dell’ambito musicale odierno (parlando dell’underground) si possa parlare di carriera, si può parlare di riuscire con i pochi mezzi a disposizione a perpetrare una passione, e tanti lo fanno, la misura dei risultati è eterogenea. Anche chi riesce nel suo piccolo a tirare fuori un EP o a fondare una piccola etichetta indipendente per dare voce alla scena musicale della propria zona, nonostante le avversità economiche, ha già fatto un lavoro enorme e degno di ogni rispetto. L’underground è fatto in larga parte di un sommerso popolato da musicisti dalla doppia vita, e noi facciamo parte di questi. Aiuta molto mettere parte del tuo approccio artistico anche nella vita quotidiana. Personalmente provo una grande diffidenza quando sento termini come “professione musicista” o “lavorare con la musica”; preferisco un approccio artistico a quello professionale.

Abbiamo recensito il vostro album omonimo. Lo potete presentare ai nostri lettori? Di cosa parlano i testi?

L’album, se dovessi fare una sinossi, altro non è che una istantanea, un documentario sonoro di quello che è successo in quello studio nell’estate del 2019. E’ la miglior descrizione che possa fornire. Cattura lo spirito di un pugno di musicisti apuani che dicono “suoniamo qualcosa”. Ovviamente non ci sono note a pie’ di pagina o sottotitoli per raccontare nel dettaglio ogni assurdità successa, e ne sono successe. Per quanto riguarda i testi tendo a non voler svelare. Tanti musicisti si lasciano andare in spiegoni dettagliati o svelano significati reconditi dei loro brani, secondo me è meglio lasciare all’ascoltatore il compito dell’ascoltatore, che è anche quello di avere dubbi, lasciare spazio all’interpretazione personale. Quando vediamo ad esempio una scultura o un dipinto non andremmo mai dall’autore a chiedere il significato dell’opera. Sono tempi in cui le didascalie d’aiuto sono ovunque, dovremmo ritornare a riprovare a contemplare quello che gli artisti ci mettono davanti.

La canzone che preferite di questo album?

Non c’è un brano in particolare, amiamo il disco come prodotto nella sua interezza, dal momento che abbiamo messo energia in ogni aspetto, dai brani alla copertina; nasce come prodotto unico. Posso dire che “I’m Goin’ Home” è stata la prima a dare una direzione di suono e il resto dell’album è stato allineato su quella attitudine. “Seacide” è un riadattamento di un’idea del progetto precedente quindi è il concept più legato al passato. “Pink Pale Toes” mi diverte molto e come “Bodhi Waves” e “Slightly All Night” si prestano ad essere dilatate in jam lunghissime dal vivo.

Cosa rappresenta la copertina del disco(subito sopra) e da chi è stata fatta?

Camille Mille ha realizzato tutto il concept grafico, è una designer talentuosa. Ancora prima dei brani e delle registrazioni aveva già l’idea dell’aspetto finale essendo anche lei conoscitrice della scena apuana ha cucito tutto l’aspetto visivo in maniera aderente al progetto, che nel tempo si è evoluto e modificato di pari passo alla direzione che stavamo prendendo. Possiamo dire che la cover nella sua interezza è progredita assieme alla musica; è de facto la prima traccia dell’album. Non è da dare per scontata una cosa del genere: chi si occupa dell’artwork di un gruppo è, a mio avviso, parte del gruppo stesso. E’ risultato un bel oggetto, a breve uscirà in vinile e potrete constatare.

Quale è il filo rosso che collega le vostre canzoni?

I brani sono molto diversi tra loro, paradossalmente questo può essere un filo rosso che li lega. Ma non voglio nascondere che piuttosto che utilizzare un “concept tematico” tra i brani, abbiamo voluto dare all’andamento dell’ascolto un certo respiro; una sorta di “concept uditivo”. Utilizzando di nuovo una metafora cinematografica, ho voluto dare una sequenzialità di scene abbastanza coerente, comunque che sia riuscito o meno è irrilevante. E’ comunque stimolante riuscire ad incastrare i vari momenti dell’album per dare un senso di continuità. Alla fine è alla base e non molto diverso dal creare un mixtape.

Immaginiamo di essere ad un vostro live. Cosa non deve assolutamente mancare e come è stato organizzato per rendere il più totalmente avvolgente l’esperienza per l’ascoltatore.

Il momento purtroppo non ci ha ancora permesso di portare live “Feel Spector”, e durante il periodo pre registrazione avevamo ancora altri progetti aperti. Speriamo, come tutti, di poter tornare sui palchi il più presto possibile.

Come state vivendo la pandemia? Come passate le vostre giornate?

Fortunatamente molti di noi riescono ad avere una parvenza di normalità. Certo, il non poter riunirsi per poter suonare è gravoso, stare a casa ti lascia molto tempo per pensare; sono già proiettato sul seguito da dare a questo primo lavoro, ma l’impossibilità di poterlo portare a compimento assieme agli altri è insopportabile, infatti al momento tendo a non voler registrare nulla, nemmeno tra le quattro mura di casa. Le idee si affacciano e le bozze per nuovi lavori si accumulano, è frustrante. Comunque abbiamo deciso di mandare fuori l’album a Ottobre nonostante la situazione, è importante che esca nuova musica, mettere una sorta di traguardo alla fine della situazione, l’ascoltatore deve poter pensare che alla fine di tutto potrà ritornare sotto i palchi.

Quale è il ruolo della musica in questa società al collasso dal punto di vista economico, climatico e sanitario?

Dal punto di vista sanitario, credo che il ruolo della musica, come del resto le altre arti, si sia considerevolmente rafforzato. Nella clausura sono stati i film, l’arte visiva, la musica (anche la pornografia, perchè no?) ad averci salvato dalla follia di massa. Non riesco ad immaginare una persona chiusa in casa senza una di queste ancore di salvezza per la mente. Gab per esempio auspica in un nuovo rinascimento nelle arti in un futuro prossimo, nonostante la situazione italiana con concerti fermi, teatri e cinema chiusi voglia passare il messaggio opposto. Sono comunque positivo: pensandoci bene, l’arte non ha bisogno di autorizzazione per poter esistere, anche nel peggiore dei momenti troverà il modo di bussarti alla porta. E questo vale non solo in periodo di pandemia. Penso al periodo della cortina di ferro quando i russi incidevano i dischi di musica occidentale proibita sulle radiografie mediche. Anche al collasso economico o con l’atmosfera irrespirabile avremo sempre una colonna sonora.

Per finire salutate i nostri lettori e date qualche consiglio per ascoltare meglio la vostra musica…

Un saluto ai lettori di System Failure. Non abbiamo particolari condizioni da consigliare per l’ascolto dei Feel Spector, è tutto nelle vostre mani. Unica raccomandazione è di sostenere la scena e i vostri musicisti locali.