Intervista a Andrea Agosta

Benvenuto su system failure. Puoi parlarci del tuo percorso artistico?

Mi sono avvicinato alla musica molto presto, avevo circa 6 o 7 anni. Il mio strumento di riferimento è la chitarra (acustica ed elettrica) che ho studiato per diverso tempo. Ho avuto esperienze in formazioni musicali di rock e punk rock. Parallelamente ho iniziato un progetto di cantautorato sperimentale, si chiamava “Paradisi Artificiali”, che voleva unire la poesia e il folk a contesti quasi Noise. Poi ho iniziato a sperimentare con diversi suoni, diciamo pure elettro-acustici, e ad affacciarmi al mondo della sintesi. Da qui sono nati i primi esperimenti e tra questi il mio primo Ep “The River”.

Perché la musica elettronica e non altri generi musicali?

Riscontro un certo appiattimento musicale (e culturale) nell’orizzonte della musica Rock, e Pop in generale. Il fenomeno Underground, il mondo indipendente sembra essere svanito o comunque irretito dalle logiche perverse di un mercato che distribuisce la musica in serie come fosse una catena di montaggio. Oggi molti preferiscono X-Factor ai garage, i palchi o i club. La scena elettronica invece mi sembra proporre un sound fresco, genuino, innovativo, e ci sono tanti progetti e artisti davvero notevoli, anche in Italia.

Che strumentazione usi per creare la tua musica? Quali programmi o plugin o tools?

Utilizzo solo strumenti Hardware in quanto prediligo un approccio fisico con lo strumento, ho la necessità di modulare con le mie mani, di toccare manopole, pulsanti, di confrontarmi con una strumentazione analogica. Ho un paio di sintetizzatori, una drum machine, un campionatore e un mixer, chitarre e diversi pedali. Per registrare uso Ableton o Logic.

Abbiamo recensito “Ruins”. Ci puoi parlare della genesi di questo progetto musicale?

Dopo il mio Ep, avevo la necessità di distaccarmi un po’ da quel tipo di sound e trovare qualcosa di nuovo, che fosse magari meno “cinematografico” e più artificiale, sintetico. Il periodo del lockdown è stato difficile per tanti aspetti, ha capovolto le nostre vite e stravolto le nostre abitudini. Tuttavia, per me, è stato anche molto proficuo in termini artistici, mi sono letteralmente chiuso nella mia stanza e ho avuto modo di riflettere e valutare attentamente quale direzione prendere, concedendomi la possibilità di lavorare a nuovo materiale. Ho cambiato il mio setup e ho provato a metter giù delle bozze. Ruins nasce da questo intenso e laborioso processo creativo e anticipa, mi auguro, un nuovo disco.

“RUINS” riparte dalle “Rovine del Tutto”. Puoi commentare e approfondire questa frase?

Servirebbero forse delle ore per rispondere a una domanda del genere. Cito una frase di Pasolini: “Io penso che nessuno in nessuna società sia libero e che quindi l’opera di ogni artista sia per forza un’opera di contestazione. Non essendo libero in una società ed essendo schiacciato dalla normalità e dalla media in qualsiasi società egli viva, l’artista è, in un certo senso, una contestazione vivente”. Viviamo in tempi molto strani, le nostre menti vengono appiattite dai media e dai social ogni giorno, ogni attimo, e percepisco un fastidioso senso di omologazione e conformismo, per non parlare dei “fascismi” che stanno sempre in agguato, si cibano della paura e prosperano quando le democrazie marciscono. In “Ruins” c’è un certo senso di disfacimento, un alone di decadenza, la percezione che quello che rimane del nostro passato, della nostra storia siano delle rovine, immagini sbiadite, polverose. È un punto d’arrivo, un monito, ma anche un modo per ricominciare, per ri-costruire.

Quale è la differenza tra “Ruins” e l’ep “The River”?

Il clima, il sound, le timbriche sono molto diverse, perché sono diversi i tempi in cui li ho concepiti. “The River” è un disco di 5 anni fa e nel frattempo sono cambiate molte cose.

Mark Rothko. Perché proprio lui? Oltre la musica che arti preferisci?

Sono sempre stato affascinato, in chiave avanguardistica, dalla commistione fra le arti, dalla possibilità di trovare punti di contatto, giunture, affinità ma anche dissonanze fra diversi ambiti artistici. I miei principali oggetti di studi sono la musica e la letteratura, in particolare la poesia, ma sono anche molto interessato alla pittura. Quando The River era pronto dovevo scegliere un’immagine per la copertina e mi piaceva l’idea di associare a quelle chitarre un po’ sgangherate e rumorose, o a quelle partiture di synth Lo-Fi un flusso di colori abbaglianti, intensi, come fosse appunto una distesa, un’onda (o un fiume). Rothko è uno degli autori più importanti dell’Astrattismo americano e le sue tele hanno sempre avuto una certa ascendenza, in termini emozionali, su di me. Sono campiture di colori stesi quasi violentemente sulla tela, con un minimalismo estremo, e anche molto lirismo.

Puoi dirci qualcosa dell’artwork di “Ruins”?

È una fotografia di un mio amico, Gabriele Drago, molto talentuoso, con un ottimo occhio, e i cui lavori sono parecchio interessanti. Per questo brano non volevo colori, trame pittoriche, ma qualcosa di più realistico. Un paesaggio scarno, minimale, quasi desertico e in bianco e nero, a suggerire un’atmosfera temporale sospesa, qualcosa che appaghi l’occhio e allo stesso tempo lo disorienti. Ne abbiamo discusso, ad entrambi piaceva il modo in cui i suoni interagivano con l’immagine.

Come nasce una tua canzone? Parla del processo creativo alla base….

Non c’è un processo alla base, niente di definito o standardizzato. Catturo dei suoni, li metto dentro una scatola, li faccio un po’ “scontrare”, li modello, e poi vedo quello che succede.

Quali sono le tue fonti di ispirazione?

Può essere qualsiasi cosa, un’emozione, un pensiero, una frase, una sequenza di immagini, o anche solo una suggestione musicale. Quasi sempre è qualcosa di determinato, ma mi piace anche lasciarmi un po’ trasportare dal caso, da ciò che è apparentemente inutile o sterile, e trovare inedite possibilità di significazione.

La tua musica prevede anche un’esecuzione live o come tanti preferisci solo un’esposizione della tua musica sulle piattaforme digitali?

Diffido fortemente delle piattaforme digitali come strumenti di fruizione musicale e di tutte le dinamiche annesse. Sto preparando un live che spero di presentare a breve.

Isulafactory. Come è collaborare con loro?

È una realtà stimolante, all’interno vi sono artisti molto seri, bravi, e amici di lunga data. Creare un’etichetta oggi, per certi versi, è una follia, e mi auguro nel tempo, contesti come questi possano trovare un seguito sempre più ampio. Per me è un onore e un piacere collaborare con loro.

Quali sono le tue influenze musicali?

Vengo dall’Alternative e dal punk rock, queste sono le coordinate principali, l’ossatura delle mie esperienze, e diciamo anche un’attitudine. Ma i miei interessi (e miei ascolti) sono molto eterogenei. Avrei difficoltà ad indicare autori o generi e ometterne altri. Potrei mettere in mezzo anche la musica sperimentale, il Jazz, ma anche l’Hip-Hop o il Soul.

Se la tua musica fosse una città, un libro, un quadro o un film?

Se fosse un libro sarebbe sicuramente Tropico del Cancro di Henry Miller.

Per finire, saluta i nostri lettori e dai qualche consiglio a chi sta cominciando a “smanettare” con plugin VST, sequencers, drum machine e tanto altro…

Siate voi stessi, sempre.