GIACOMO SCUDELLARI: è uscito COSE CHE SAI

“Come può il tempo renderci migliori? Come può cambiarci un qualcosa di così immateriale? Noi siamo il nostro passato, il disegno perfetto delle esperienze casuali vissute. E se ripercorrendo il filo rosso dietro di noi trovassimo un nuovo percorso? Potrebbe essere l’inizio della nostra rivoluzione.”

Davide Bart Salvemini

GIACOMO SCUDELLARI

Un rock autoctono composto

Lo Stretto Necessario”, il lavoro di debutto sulla lunga distanza del cantautore Giacomo Scudellari, esce oggi in formato fisico e digitale per Brutture Moderne / Audioglobe con la produzione di Francesco Giampaoli (Sacri Cuori, Classica Orchestra Afrobeat).

Quello di Giacomo è un disco per celebrare “il gusto onesto della Gioia con la g maiuscola”, in nove canzoni positive e vitali, senza tonalità minori, capaci di scavare in profondità non rimanendo scioccamente in superficie. Ma è anche un’opera che “non vuole scrivere ancora una volta il manuale del cantautore depresso o incompreso perché magari è stato lasciato dalla fidanzata, o perché è lui che l’ha lasciata e si è pentito, o perché non la trova. Chi cerca questo non troverà pane per i suoi denti.

Non troverà del pane, è vero, ma troverà tanti bicchieri di sambuca – rigorosamente con “la mosca” dentro – e un sapore dolciastro, leggermente alcolico, da bevuta in allegria, a ribadire la necessità di “non commettere il crimine di accontentarsi, di sparare i propri colpi per terra, di rinchiudersi in un rassicurante acquario.
Quello di Giacomo è un cantautorato classico, che guarda devotamente alla tradizione dei Settanta ma la sposta verso altri lidi musicali, il più delle volte sorprendenti. Ci sono chitarre acustiche (Marco Bovi), bassi, batterie (Diego Sapignoli) e accanto piano e tastiere (Nicola Peruch), moog, trombe, tromboni e flicorni (Enrico Farnedi), mandole, e-bow (Stefano Pilia), banjolele, duduk e launeddas (Christian Ravaglioli). Le tracce si muovono fra percussioni africane, cori sghembi (Caterina Arniani), batterie metalliche alla Clash, imperiosi fiati morriconiani, mitraglie country, fanfare calypso come omaggi ad Harry Belafonte e paesaggi lunari. Il tutto illuminato a dovere dalla lanterna di Francesco Giampaoli, timoniere del disco, nonché guida di questa folle passeggiata oceanica.

Ho pensato che il modo migliore per dare forma musicale ad un entità così astratta e rarefatta come la gioia fosse quella di riempirla di concretezza, come se ogni canzone fosse un’idra con cento teste da colorare. E in queste cento teste rifluisce di tutto, dai nativi d’America, alle balene, ai partigiani, e, soprattutto alle notti di sambuca.” Ed è proprio il “Cantico della sambuca” a fare da manifesto di vita all’intero disco, un manifesto “di quelli che si cantano al salpare del sole”, prima di pensare che il modo migliore per morire è in una taverna (“Morirò in una taverna”) o che magari quando un amore finisce può finire anche l’amore in assoluto (“Un mese in Provenza”). Succede, come succedono tante altre cose nella vita di ciascuno. Ma l’importante è saperci fare sopra una bevuta come si deve, anche quando in una notte blu elettrico dobbiamo diventare come quei pesci luminescenti nelle profondità dell’abisso per avere a che fare con “Lo stretto necessario”, ma senza mai prendersi troppo sul serio.

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