Intervista a May Rei

Benvenuta su system failure. Spiega ai nostri lettori…come è nata in te la passione per la musica?

Sin da bambina ho sempre ascoltato tanta musica con la mia famiglia. Ho cominciato ad esprimermi con il canto e il ballo molto presto. Da ragazzina, poi, ricordo che divoravo riviste inglesi di musica che acquistavo in stazione. La musica ha sempre fatto parte della mia vita e oggi ho fatto di questa il mio tempio.

Perché la musica elettronica tra tanti generi musicali?

La scelta del genere è dettata dalla curiosità che ho avuto per i sintetizzatori, oltre che dalla voglia di ricreare delle sonorità presenti nelle musiche che ho amato sin da piccola. In questi ultimi anni ho avuto modo di approfondire il sound design e la produzione in generale. Trovo affascinante l’idea di poter lavorare su un suono, di creare effetti, ed infine di creare un’intera traccia, strumentale o con voce. Lo considero quasi un rituale magico, anche se non sempre facile. È un genere che mi ha resa indipendente e capace di trasformare i miei pensieri e le mie idee in suoni, in musica. Inoltre, il vantaggio di avere a disposizione tanti strumenti in pochissimo spazio è stato un grande stimolo per la mia creatività.

Che strumentazione usi per la tua musica (programmi, tools etc)?

Le mie produzioni sono prevalentemente “in the box”. Ho delle librerie dove raccolgo i miei suoni preferiti, alcuni dei quali generati con dei synth che ho in studio. A dire il vero però di preferiti ce ne sono pochi, poiché mi piace cercarne sempre di nuovi, avere nuovi stimoli. Lavorare in questo modo mi ha permesso di approfondire le fasi di produzione (dal beat al mastering), per non parlare del lavoro sulla voce. Ho imparato tantissimo negli ultimi tre anni e non è mai abbastanza per fortuna.

Come nasce una tua canzone? Ci parli del processo creativo alla base?

Una mia canzone nasce con i suoni. Le parole arrivano sempre dopo. È la musica a scrivere la storia, a dettare la natura e il mood della canzone. Solitamente comincio con il creare la parte ritmica. Mi piace realizzare i beat da zero perché, oltre ad essere un’occasione per studiare i suoni di batteria e gli strumenti percussivi, mi permette di essere molto più creativa e libera da schemi – nel bene e nel male. Questa è una fase decisiva perché il beat implica in gran parte la scelta dello stile. Poi, il resto lo decido nel mentre. Creo la mia band, raccolgo i miei strumenti, poi decido cosa mantenere e cosa eliminare. Lentamente le idee prendono forma. Alcune canzoni nascono in pochi giorni, altre invece richiedono molto più tempo, a volte mesi. Inoltre, mi piace lavorare contemporaneamente su diverse tracce, o persino su diversi progetti. So che è strano dirlo, ma sono abbastanza produttiva quando sono sotto stress. È come mettersi a creare nel caos per riportare in esso un certo equilibrio. È come voler dare un senso alle cose avvicinandosi a quell’idea di perfezione che si ha in mente.

A cosa ti ispiri per i testi?

Mi ispiro principalmente alla mia vita, ma anche alla vita della gente. Mi piace trattare temi attuali, ma anche storie un po’ più personali o totalmente inventate. Spesso anche i film, i libri sono fonte di ispirazione per me. Laura, per esempio, si ispira ad un personaggio cinematografico e parla di un’amore tra due donne; Clouds in my head è un ricordo adolescenziale tra sogno e realtà che non ha un lieto fine. Altri testi parlano di generazioni, di libertà, di indipendenza.

Chi sono i tuoi modelli musicali? Quali gli album indelebili nella tua memoria?

Ho sempre accolto la musica come una dimensione universale, perciò mi risulta difficile dire di avere dei modelli musicali. Tra gli album – indelebili per diversi motivi – mi vengono in mente The Dark Side of the Moon (Pink Floyd), Debut (Björk), The Man Machine (Kraftwerk), Mezzanine (Massive Attack). Ma la lista è troppo riduttiva.

“It’s All About Phases”. Ci parli della genesi di questo tuo album? Che emozioni hai provato alla sua uscita?

L’album presenta un lavoro più ritmico e con più cantato rispetto ai lavori precedenti. Era anche mia intenzione qui usare più suoni organici e strumenti come la chitarra. Il titolo rimanda alle fasi della vita, alle fasi generazionali, ma anche alle fasi di produzione dell’album che vivo come una prova di coraggio. Dopo l’uscita dell’album ho provato un senso di leggerezza, di liberazione, ma anche di responsabilità, ovvero quella di come arrivare all’ascoltatore. E da artista indipendente con una label questa responsabilità la senti addosso.

Quale è la differenza tra suonare per se stessi e suonare per Hertzen, il tuo secondo progetto musicale?

Con il progetto May Rei sono praticamente da sola. È un lavoro introspettivo, poiché (ri)scopro me stessa attraverso la musica. È un’opportunità unica, ma anche una grande responsabilità, poiché, non avendo un team, mi è più difficile giudicare i lavori in maniera oggettiva. Insomma, il lavoro in solitaria è senza dubbio un’ottima palestra, un percorso più lungo e arduo, ma gratificante per molti aspetti. Con Hertzen invece c’è un approccio diverso. Marcelo lavora sulla parte ritmica, sulle melodie. Poi, insieme, discutiamo sull’arrangiamento, sugli strumenti. Successivamente, scrivo i testi e lavoro sulla voce. Lavoriamo insieme sull’intera produzione fino al mastering. È un lavoro in continua evoluzione, una costante ispirazione e crescita professionale. In due si è decisamente più produttivi e più oggettivi. Mi diverto anche di più, poiché riesco a dedicare più tempo al canto.

Siamo in un mondo in crisi climatica, geopolitica e sanitaria. Ebbene, in un mondo così, quale è il ruolo della musica secondo te?

La musica, come ogni arte, funge da catalizzatore di emozioni. Ci arriva dentro e ci aliena dalla realtà per un attimo, il che fa bene. È un po’ come cercare risposte, cercare una via di fuga, o semplicemente trovare sollievo. Se alla bellezza si aggiunge poi anche un messaggio costruttivo per la società, allora credo che la musica, o meglio, che l’artista abbia fatto il suo dovere. Ovvero quello di far riflettere il pubblico sugli eventi sociali, politici e di farsi portavoce di questi. La musica poi ci insegna ad essere sensibili (con l’orecchio e con il cuore) e la sensibilità è la qualità più nobile che un essere umano possa avere. La musica aiuta ad elevarci.

Su quale palco sogni di suonare?

Su un palco da condividere con altri artisti internazionali e con un pubblico pronto ad emozionarsi.

Se la tua musica fosse un libro, un quadro o un film?

Se la mia musica fosse un libro, direi Le Onde di Virginia Woolf. Una scrittura libera, scandita dal ritmo, che non ha paura di parlare di solitudine, di paura, di angoscia, tra finzione e realtà, attraverso la storia di sé e di altri. Il mare con il suo ritmo naturale, ciclico, ripetitivo è quello che sa essere la musica per me. Le onde sono un flusso di pensieri e lo scorrere è insito nel mio nome, ‘rei’. Se fosse un quadro, penserei a Papilla Estelar di Remedios Varo perché materializza l’universo del subconscio. Io faccio esattamente questo con la musica. Se fosse un film, ne sceglierei uno certamente surreale come Valerie And Her Week Of Wonders di Jaromil Jireš. Un film degli anni settanta a metà strada tra avventura fantastica e horror surreale. Adoro questo genere di film. In qualche modo riflettono l’aspetto magico, ma anche un po’ weird della mia musica (soprattutto delle tracce strumentali). Inoltre, il film ha delle colonne sonore splendide. Questo è un altro aspetto del cinema che mi piace scoprire.

Come immagini il tuo concerto perfetto?

Un concerto dove il pubblico riesce a farsi trasportare dalla mia musica.

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