Intervista a Bye Bye Japan

1)Benvenuti su System Failure. Presentate la vostra band ai nostri lettori. Parlateci di come si è formata. Insomma raccontateci tutto…

Poco da raccontare. Massimiliano si è trasferito da Roma a Palermo. Incontrato Fabrizio, tramite un annuncio, si è deciso di provare a suonare un po’ insieme. Il vero problema era trovare un batterista. A Palermo, come ne volevamo noi, ce ne sono pochissimi, e, quelli che ci sono, sempre troppo impegnati. Quando si presentò Drew (Andrea Tascone) quasi lo abbiamo snobbato a causa dell’età e invece è diventato da subito una colonna portante. Le cose fra noi sono girate bene sin da subito. Avevamo assoldato una cantante, a mo’ di turnista, per fare la finale provinciale di Arezzo Wave Lazio (vinta a Frosinone), poi la vittoria al contest Satisfactor, insomma eravamo quattro e dirci una band a tutti gli effetti fu una naturale conseguenza. Prima dell’estate scorsa (2017) c’è stato un avvicendamento che ha portato Kimberly ad unirsi a noi ed ora, toccando ferro, crediamo di aver quadrato il cerchio. Crediamo che i fatti parlino per noi.

2)Come è nato il nome della band?

Una storia lunga. Diciamo che è ispirato da un film di Sophia Coppola: “Lost in translation”. Una storia d’amore fra persone diversissime che si incontrano in un albergo di Tokyo. Nella struggente scena finale c’è l’addio al Giappone. Un addio che però non è un addio, piuttosto un arrivederci a chissà dove. Romanticismo, disillusione, amori di frontiera, incertezza del futuro, dimore di fortuna, precarietà… eravamo tutto questo in quel momento, per cui: Bye Bye Japan! 😉

3)Ora parlateci del vostro background musicale e nominate 3 album che hanno segnato la vostra vita…

Abbiamo ascolti molto diversi, anche se compatibili. Andrea è più votato al post punk (Wolf Alice sopra tutti). In Fabrizio riscontriamo sfumature più grunge e post grunge (Soundgarden, Alice in Chains, Pearl Jam sono di sicuro i suoi riferimenti principali). Massi ascolta Coltrane, Monk, Charlie Parker, poi passa a Rossini, Rachmaninov e poi agli Yeah Yeah Yeahs, poi ancora al blues del Delta… (abbiamo molta pazienza con lui!). Kimberly invece, per tantissimo tempo, un po’ per suonare, un po’ per lavorare, ha avuto un lungo periodo di divagazioni pop. Non è difficile trovare sul web sue versioni di pezzi commerciali. Ma l’attitudine rock originaria è tornata prepotentemente quando ci ha incontrato. P.J.Harvey su tutto, ma anche Radiohead, Rage Against the Machine, Skunk Anansie, etc…

I tre album potrebbero essere: “Daydream Nation” (Sonic Youth), “Fever to tell” (Yeah Yeah Yeahs) e “The big roar” (Joy Formidable).

4)Come nasce in voi la passione per la musica?

E’ come chiedere perché si è nati. Non lo sappiamo. E’ un mistero. Un mistero scritto nel codice genetico. Potremmo fare mille altre cose nella vita, ma solo una cosa non potremmo mai non fare: SUONARE!

4)Su System failure abbiamo recensito il vostro disco dal titolo “14”. Come è nato? Avete qualche particolare aneddoto da raccontare? Come è stato lavorare con Paolo Mauri?

Siamo una band piuttosto triste. L’aneddotica della band si ferma alle conquiste di Drew, alle disavventure con i cani di Fabrizio (di recente è stato morso), agli allibratori che indicono scommesse sul colore dei capelli di Kim (che può cambiare di giorno in giorno a seconda del suo umore) ed all’ormai patologica insonnia di Max. Ci chiedi come è nato “14”… chi lo sa! E’ venuto da sé. Noi abbiamo fatto davvero pochissimo. Fabrizio è divenuto papà di recente, gli balenava in testa un bel giro ed ha scritto un testo dedicato a sua figlia che abbiamo trovato interessantissimo. Max ha completato la composizione. Avevamo il singolo! Max ci ha poi sottoposto un altro pezzo, aveva tutto (soprattutto tante ore insonni alle spalle), ma non il testo. Ci ha pensato Fabrizio ed è nata “I need to sleep”. Il bello è venuto quando abbiamo dovuto scegliere il produttore. Massi voleva dare un taglio più elettronico a questo nuovo lavoro, pensava a qualcosa di molto vicino a “It’s Blitz!” degli Yeah Yeah Yeahs. Poi, però, man mano che si arrangiavano i due pezzi usciva una forte vena noise, a quel punto impossibile non pensare a sua maestà Paolo Mauri che di ritorno da Barcellona (dove stava registrando un disco Jazz) ha deciso di fare tappa a Palermo per venirci a produrre. I ragazzi del Creaking Wood ci hanno messo a disposizione il loro studio. Quel solo giorno di lavoro è tutto nei solchi del 45 giri di cui vi stiamo parlando. Ovviamente la fase di mixaggio e produzione è stata molto più complessa, ma con Paolo è stato tutto talmente naturale che si è creata una reale identità di pensiero e tutte le scelte fatte da lui ci hanno trovato assolutamente concordi. Siamo davvero felici di questo lavoro.

5)Ci parlate della cover di “14”?

Pochi sanno che tutto ciò che ci compone in quanto esseri umani (intendo a livello di elementi chimici), è il risultato di un’esplosione stellare. Siamo letteralmente formati da polvere di stelle. Un bel biglietto da visita per la razza umana, non vi pare?

6)Quali sono le differenze tra “14” e il vostro primo 45 giri omonimo?

Profondissime. Il primo vinile è stato il frutto del motore propulsore che anima Massimiliano. E’ stato probabilmente il solo che ci ha capito qualcosa, progettando il risultato finale al di là di tutto. “14” no. “14” è un lavoro molto più consapevole, la cui realizzazione ha coinvolto tutta la band. Tutti hanno partecipato attivamente all’arrangiamento e alle fasi di elaborazione dei pezzi. In questo senso, “14” è il vero manifesto dei Bye Bye Japan. Nonostante ciò, sentiamo che anche il primo 45 giri “Bye Bye Japan” sia ancora attualissimo e comunque il risultato di una sinergia tra gli elementi. Come a dire: gli elementi della torta c’erano tutti anche lì, solo che anziché cucinarla solo la “nonna”, questa volta ci si è messi tutti ai fornelli.

7)Come nasce una vostra canzone? Parlateci del processo creativo…Chi si occupa del songwriting?

Fino adesso è stato quasi sempre Max, il nostro bassista, ad aver dato la scintilla per la combustione. Probabilmente sarà così anche per il futuro. Anche se niente è mai dato per scontato. Fabrizio ha sottoposto alla band diversi pezzi che stiamo valutando. Quello che è strano è che, se è vero che Max compone, tutti poi possiamo intervenire nella costruzione del pezzo. Andrea interviene proponendo le sue soluzioni ritmiche spesso non convenzionali, Kimberly adatta le linee vocali al suo cantato. Potrebbero sembrare soluzioni e cambiamenti minimi, ma non è così. In generale interveniamo tutti nel processo creativo di un pezzo e, quando qualcosa ha valore, Max è sempre il primo a farsi da parte per lasciar spazio a nuove idee.

8)Quali sono i vostri punti forza?

Uno soltanto. La complementarietà. Quando siamo concentrati, crediamo davvero di essere un bel combo. Crediamo di riuscire a dosare “rumore” e “melodia” come poche delle band esordienti che pure ci piace ascoltare in giro.

9)Se la vostra musica fosse una città a quale assomiglierebbe?

Non potrebbe che essere Palermo. Aspiriamo all’ immedesimazione totale con la città. Ci piacerebbe diventare quello che furono gli Uzeda per Catania negli anni 90 o gli Afterhours per Milano. Gli ingredienti, in teoria, ci sarebbero tutti. Sappiamo essere rumorosi come la Vucciria e “melodici” come le architetture aragonesi di via Alloro. Palermo, non potremmo che essere Palermo.

10)C’è un filo rosso che lega tutte le vostre canzoni?

Ogni composizione è una storia a sé. Cerchiamo di parlare di ciò che ci piace. Di arte, di cinema, di pittura, di architettura, di donne, di uomini, di personaggi famosi, di persone non famose, ma interessanti. Cerchiamo di rappresentare il nostro mondo. Cerchiamo di cambiarlo per gli aspetti che non ci piacciono. Con forza e veemenza gridiamo contro quello che non vogliamo che sia. Non c’è mai un vero filo rosso. Se c’è, come ti dicevamo, siamo noi, cercando di essere il meno autoreferenziali che ci sia possibile.

11)Crearsi un vero e proprio pubblico senza un management e senza ufficio stampa, questa sembra la scelta dei Bye Bye Japan. Spiegate ai nostri lettori questa vostra scelta…

Più che una scelta è la nostra maledizione. Siamo persone che vengono dal niente e che suonano per pura passione. Due elementi che oggi trovano poco terreno fertile, almeno sulla carta. Sappiamo bene come funzionano le cose. Se sei agganciato a determinati giri hai immediatamente vita facile. Vediamo band di diciottenni che si affacciano per la prima volta su un palco e li vediamo fare tour, dischi, suonare in grandi festival, etc… poi vai a scavare e vedi che quello è amico di quell’altro che è amico di quell’altro ancora. E’ un sistema drogato, dove vanno spesso avanti solo le persone che possono investire. Le agenzie e le case discografiche non fanno più scouting, anzi si fanno pagare care per dare questo o quel servizio. Ovviamente chi più può, più fa. Noi non abbiamo possibilità di investire, né forse ce ne frega niente. Per cui facciamo da noi, in maniera “artigianale”. Facciamo alacremente senza porci nessun obiettivo. Ma abbiamo dalla nostra un’arma importante: piacciamo! E quando una cosa piace è difficile imbrigliarla, così come è difficile che passi completamente inosservata. Aspettiamo la nostra occasione, se mai si presenterà!

12)In un mondo dove si ergono nuovi muri e si parla di nazionalismo e protezionismo quale è il ruolo della musica?

Fondamentale. C’è bisogno di musica ora più che mai. I governi imbrigliano le masse, le banche le schiavizzano monetariamente. La situazione è drammatica. Fateci caso, la musica (il rock soprattutto) l’hanno fatta sparire. Dalle televisioni, dalle piazze. Non c’è più musica. La musica veicola messaggi, la musica è pericolosa. La musica ti costringe a riflettere e a confrontarsi. Siamo la prima vera generazione senza musica… e chi ne fruisce, lo fa in maniera “carbonara”.

13)Quale è la vostra massima aspirazione come band?

Suonare. Suonare tanto. Non ce ne frega nulla di essere famosi. Ci interessa invece suonare in posti sempre più qualificati. Suoniamo in posti che spesso non hanno nemmeno il palco. Piccoli club con impianti penosi. Tecnicamente avremmo bisogno di molto di più. Torniamo al discorso di prima. Non abbiamo un booking che ci cura le serate. Riusciamo da uscire con fatica dalla nostra città. E’ davvero dura. Eppure succede che ci chiamino. Succede che la gente ci venga a vedere. Crediamo di meritare qualcosa di più, ma se non verrà non ci strapperemo le vesti. Noi suoniamo per il piacere di suonare.

14)Con quale artista/band indipendente vorreste collaborare? Come vedete la scena indie italiana?

In giro in questo momento ci sono tante cose belle. Ci piacerebbe incontrare dal vivo i Wolf Alice o gli italianissimi Mòn, una band che stimiamo molto. Sono giovanissimi eppure hanno una maturità artistica impressionante. In studio invece ci piacerebbe fare qualcosa con P.J. Harvey o con gli Yeah Yeah Yeahs, ma la reputiamo una cosa troppo al di sopra della realtà. Nella vita però abbiamo imparato che “mai dire mai” è la più saggia delle regole da seguire. Riguardo alla scena Indie, dipende da cosa si intende. Se intendiamo la pletora di nuovi cantautori che si spacciano per indipendenti e poi sono distribuiti e promossi dalle major preferiamo non esprimerci, per evitare querele. Se invece intendiamo tutti quei gruppi che nonostante una situazione generale impossibile, continuano a vedersi in saletta e fare musica originale ne pensiamo tutto il bene, anche perché in Italia abbiamo artisti pazzeschi. Proprio ieri siamo andati a vedere “Il sogno del marinaio” di Stefano Pilia & co. e siamo rimasti letteralmente incantati.

15)In quale festival italiano o straniero sognate di suonare?

Max vi ha già suonato con una sua band, ma l’Home Festival di Treviso rimane certamente quello che ci affascina di più. Per rimanere fra i festival italiani potremmo citare anche il Mi Ami. Ma è inutile mentire, il sogno sarebbe la triade: Coachella, Sziget, Primavera Sound.

16)E’ stato un piacere intervistarvi. Per concludere la nostra chiacchierata lasciate un messaggio ai nostri lettori…

Venite ai nostri concerti per capire se possiamo piacervi o meno. In certi casi vale solo l’esperienza diretta. A quel punto potremmo anche non piacervi, ma almeno sarà frutto di una vostra esperienza. Vi aspettiamo…